
Nonostante la presenza di ricorrenti campagne, come ad esempio #seisicuro, promossa dalla Polizia di Stato e da Autostrade per l’Italia, che, tramite spot pubblicitari ironici e divertenti, informano gli automobilisti dei rischi al fine di persuaderli sull’utilizzo del telefonino, quasi sempre a distrarre è proprio l’uso del cellulare mentre si guida: si fanno telefonate, ma anche tutte le altre azioni rese possibili dall’avanzata tecnologia degli smartphone – dai selfie alla scrittura di post per i social network -, attività che portano chi è al volante a fissare per diversi secondi lo schermo del cellulare, distogliendo l’attenzione dalla guida. E questa pericolosa abitudine non è prerogativa dei giovani se, come si legge ancora su Repubblica, “dai 18 ai 64 anni, la percentuale di chi ammette di aver guidato con il cellulare in mano è del 51%”.
Ma qual è il motivo per cui così tante persone rischiano la vita, propria e altrui, per usare il telefonino? “La guida richiede grande attenzione cognitiva, quindi, basta poco per distrarsi. La presenza di uno strumento in macchina che continuamente si illumina, manda segnali acustici o visivi ci distrae anche solo a livello inconscio“, spiega Antonio Cerasa, neuroscienziato dell’Istituto di bioimmagini e fisiologia molecolare (IBFM) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Oggi è insomma difficile non guardare e non usare il telefonino per troppo tempo, anche quando si è al volante. “La comunicazione nella nostra società liquida è istantanea, dunque dobbiamo costantemente essere connessi perché quello che ho scritto su un messaggio otto ore fa è già preistoria”, commenta Cerasa. “Tutto questo rende la diatriba sull’uso del cellulare in macchina difficile da risolvere”
Oggi la tecnologia sta indubbiamente venendo incontro alle esigenze della pubblica sicurezza, rendendo le macchine sempre più wireless, sempre più bluetooth, sempre più connesse, ma questo non basta a garantire la sicurezza. “Una possibile spiegazione del perché non resistiamo alla tentazione di guardare il cellulare, sta nel meccanismo del “touch”. L’incredibile mole di opportunità che ci offre il mondo degli smartphone esplode nelle nostre mani grazie a un semplice tocco del dito sullo schermo”, continua il ricercatore. “L’interazione con il telefonino è estremamente particolare perché fin da bambini abbiamo appreso che per entrare nel mondo di internet possiamo farlo con un semplice tocco. Il tocco può farci scoprire chi parla di me, chi mi sta pensando, chi sta guardando quello che ho fatto, i commenti degli altri e molto altro ancora. Toccare lo schermo significa essere continuamente tra la gente, essere premiato per ciò che si fa, essere ricercato, essere desiderato. Ognuno di noi ha quindi appreso che basta “toccare” per interagire con gli altri attraverso il web e questo condizionamento pavloviano (“tocca e ti dirò chi sei!”) non è facile da interrompere”.
Il gesto del “tocco” per entrare in comunicazione con il mondo, se ripetuto tante volte durante il giorno, si trasforma da azione volontaria ad un semplice comportamento automatico. L’effetto dell’apprendimento e della ripetizione produrrà quel famoso fenomeno di plasticità neurale chiamato “memoria procedurale”, in cui un set di azioni motorie e cognitive vengono “zippate” e trasferite in un’altra area per poter essere eseguite in maniera più facile ed immediata e soprattutto in maniera inconscia. Attraverso questo meccanismo l’essere umano riesce ad apprendere migliaia di nuove abilità ogni giorno, ma se questo comportamento viene ripetuto in maniera frenetica, centinaia di volte al giorno per mesi interi si può passare da un semplice comportamento appreso a movimenti stereotipati, cioè fini a sé stesso senza un reale significato adattivo. La regione del cervello che gestisce la fase di apprendimento procedurale di una nuova azione, cosi come la sua innaturale trasformazione in comportamento stereotipato, è il cervelletto. Questa regione cerebrale, se stimolata in maniera adattiva dall’ambiente, produce nuove forme di abilità che possono arrivare a manifestarsi nella grandiosità delle abilità di un grande sportivo, musicista o di un head chef. Se, invece, invece viene stimolata in maniera ripetitiva e frenetica, il cervelletto produrrà risposte compulsive difficili da interrompere se non a spese di un grosso sforzo cognitivo. Il viaggio in macchina può rappresentare un buon test per capire se la nostra interazione con il cellulare si è spostata più sul versante patologico. La classica sintomatologia è: l’insofferenza che sale con il passare del tempo senza poter controllare il display, l’incapacità di resistere soprattutto durante i periodi di attesa nel traffico, la distraibilità cognitiva che si manifesta ad ogni segnale di notifica. Se contassimo le volte che sentiamo questi eventi emotivi durante il nostro naturale tragitto in macchina ci renderemmo conto che sono ciclici e ritmici. Esattamente come le volte in cui controlliamo il cellulare quando siamo tranquilli a casa. La sincronizzazione e la ritmicità sono proprio le due principali funzionalità del cervelletto necessarie per coordinare i movimenti del corpo. Il viaggio in macchina per il nostro cervelletto è un fastidioso intruso che impedisce la normale ripetizione ciclica dei comportamenti stereotipati. Soluzioni? Distraiamo il cervelletto con altri movimenti ciclici e ritmici: cantiamo mentre guidiamo!
L’avanzamento tecnologico deve però renderci ottimisti, come suggerisce Cerasa: “Se possiamo cambiare le marce semplicemente premendo un pulsante sul volante, senza bisogno di staccare gli occhi dalla strada, possiamo fare la stessa cosa per scrollare i messaggi che arrivano al cellulare. Ma abbiamo bisogno di una nuova generazione di auto con Intelligenza Artificiale, capaci di fare per noi quello che faremmo se avessimo il cellulare in mano. È solo questione di tempo, il futuro ha già previsto questo tipo di nuova evoluzione della comunicazione, ma nell’attesa possiamo cominciare ad allenarci a “toccare” un po’ meno lo schermo del nostro cellulare”.